Dopo 5 sedute di rialzo consecutive la cosa più naturale di questo mondo sarebbe una pausa di riflessione. I commentatori dei media finanziari, influenzati dalle esigenze del “sistema”, chiamano “consolidamento” queste situazioni, in cui i mercati arretrano un po’ dalle vette appena toccate. Personalmente non sono molto d’accordo con questa definizione. “Consolidamento” evoca una situazione da cui si dovrebbe uscire più forti di prima. Invece un arretramento, per quanto piccolo esso sia, è pur sempre un evento che toglie qualcosa, per cui la parola esatta per definirlo dovrebbe essere “indebolimento”. Ma, si sa, l’approccio degli addetti alla divulgazione delle notizie e degli addetti alla consulenza al popolo, che dall’entusiasmo della massa hanno solo da guadagnare, è sempre improntato all’ottimismo, e questo si vede anche nei termini usati per definire le discese di borsa.
Proviamo a pensarci: i cali lievi vengono chiamati “consolidamenti”, quelli più seri “correzioni”, mentre le perdite gravi sono chiamate “volatilità”. Un’accurata scelta delle parole che cerca di evitare il panico dei risparmiatori minimizzando sistematicamente la portata di quanto succede. Per trovare un termine preoccupante bisogna che arrivino i veri e propri crolli, per definire i quali si usa spesso il termine “terremoto”. Questo termine è finalmente calibrato alla gravità della situazione, che non può essere edulcorata per non cadere nel ridicolo, ma a ben vedere è un termine “deresponsabilizzante”, poiché evoca un evento imprevedibile e senza responsabili e predispone il popolo ad accoglierlo in modo fatalistico e ad attendere composto che il tempo rimuova le macerie.
Ieri abbiamo assistito a quello che i media di oggi definiranno “consolidamento”. Un arretramento inferiore al punto percentuale per le borse europee ed il Nasdaq100 (il nostro Ftse-Mib ha chiuso addirittura quasi invariato) o di poco superiore per SP500 e Dow Jones. Niente di cui preoccuparsi, secondo la tradizionale narrazione compiacente.
Però, guardando all’andamento del future su SP500, ho avuto l’impressione che i rialzisti abbiano significative perplessità ed i venditori stiano prendendo il centro del ring, attuando prese di profitto più che giustificate dalle 5 sedute di rialzo consecutive da portare a casa.
Infatti il guizzo notturno, dovuto alla continuazione del rialzo cinese, si è spento man mano che in Cina gli indici arretravano dai massimi euforici raggiunti con la galoppata rialzista delle ultime sedute. Nel pomeriggio, dopo l’apertura delle contrattazioni azionarie a Wall Street, i compratori hanno tentato di fugare le perplessità riportando il future sull’indice principale fin quasi ai livelli della notte precedente. Ma non ci sono riusciti, perché prima dei massimi precedenti i venditori hanno ripreso il sopravvento, causando l’arretramento dei valori sui minimi di giornata (-1,08%) ed al di sotto della resistenza di 3.155 punti, attorno alla quale si è ballato per 3 sedute. Meglio è andata al Nasdaq che ha migliorato ancora una volta il suo massimo storico, anche se non ha potuto resistere alle vendite finali ed ha collezionato un segno negativo (-0,75%), ma con minimi e massimi crescenti.
Torna oggi d’attualità la necessità di guardare in basso, verso i supporti. Non per la Cina, che anche oggi colleziona sull’indice CSI300 un ulteriore balzo superiore al punto percentuale e porta a 7 le sedute rialziste consecutive e a 14 i rialzi delle ultime 15 sedute.
Probabilmente per i mercati occidentali, che sembrano aver perso parecchia dell’euforia dei giorni passati. Oltretutto il mercoledì è spesso giorno di inversione di tendenza. Se così sarà è l’area 3.110 del contratto Future a fare da diga per contenere le vendite. Se dovesse cedere è presumibile un’accelerazione ribassista che avrebbe quota 2.990 come primo obiettivo.
Stiamo a vedere, anche se l’incapacità di scavalcare senza ripensamenti la resistenza di 3.155 non testimonia grandi convinzioni da parte dei compratori.
Diciamo che, se non avrei dubbi a comprare una correzione cinese, quando verrà, ne avrei molti di più a comprare nuovamente l’indice americano sui supporti poco sotto quota 3.000, qualora venissero ritestati.
La virulenza del Coronavirus sta portando danni non indifferenti al tentativo di ripresa in parecchi stati americani molto popolosi. I dati macroeconomici, che nelle scorse settimane evidenziavano spesso sorprese positive e facevano sperare nella rapida ripresa dell’economia dopo la rimozione di gran parte dei lockdown, potrebbero nelle prossime parlare un linguaggio di nuovo cupo, dato che molti governatori stanno ripristinando le chiusure. Oltretutto i sistemi sanitari di Texas, Arizona e California si avvicinano al collasso, mentre Trump, per combattere il virus, non è riuscito a trovare di meglio che confermare l’uscita il prossimo anno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, a suo dire troppo filo-cinese.
Intanto ieri il contrappasso dei negazionisti ha colpito anche il sovranista brasiliano Bolsonaro, risultato positivo al tampone, come Boris Johnson ad aprile.
Non voglio fare l’uccello del malaugurio, ma mi chiedo come i mercati finanziari prenderebbero l’annuncio di una eventuale positività al virus anche di Donald Trump, altro negazionista eccellente. L’evento non è impossibile, dato che il suo staff e la sua famiglia ultimamente hanno avuto diffusi contatti con persone positive ai tamponi.
Dopo che il virus ha fiaccato la popolarità del Presidente Bullo, se ne fiaccasse anche la salute, i mercati perderebbero un potente alleato e dovrebbero scontare una vittoria sempre più probabile dei democratici alle Presidenziali, nonostante la candidatura del pigro Biden, che, chissà perché, viene considerato nemico dei mercati. Io credo che semplicemente non sappia che cosa sono.
L’esasperazione del modello basato sui profitti generati da un eccesso di leva finanziaria e da una finanza fuori controllo ha fallito. E ha prodotto il risultato opposto: la nazionalizzazione del sistema causata da eccessi di speculazione finanziaria, esattamente quanto accaduto dopo la crisi del 1929
di Maurizio Novelli, Lemanik10/06/2020 12:40
tempo di lettura 11 min
La fine del lockdown può certamente indurre a pensare che la crisi sia ormai in fase di superamento e da qui in avanti possiamo iniziare a scontare una ripresa dell’attività economica ed un ritorno alla normalità. Ma in realtà, la crisi inizia adesso.
Più passa il tempo e più emerge chiara la sensazione che il settore finanziario non sembra aver capito l’impatto e le implicazioni di lungo periodo di questi eventi né di quello che accadrà all’economia reale.
Sebbene le analisi di consenso si concentrino in prevalenza sui rischi di ricadute dovute a possibili ritorni del contagio, è molto più importante pensare alle conseguenze economiche che ci attendono senza ulteriori ipotesi.
Ipotizzare altri danni provenienti dai rischi di un ritorno dei contagi non credo sia un esercizio utile, anche perché se dovesse accadere, tutti siamo consapevoli di quello che potrebbe accadere. È molto più interessante invece cercare di capire cosa ci si puo’ attendere, dando per scontato che il problema pandemico sia risolto, e ipotizzando quindi uno scenario “virus free”.
L’economia mondiale è arrivata all’appuntamento con il Covid 19 nella peggiore delle situazioni possibili, con alta vulnerabilità al debito e alla leva finanziaria speculativa, e la pandemia ha avuto un effetto catalizzatore su tutta una serie di problemi che ormai erano evidenti da tempo.
Le bolle speculative su credito e equity che circolavano nel sistema attendevano una miccia per esplodere e la crisi finanziaria sarebbe arrivata comunque, anche solo per una semplice recessione. Se si continua ad insistere nell’attribuire a un virus, e cioè a un fattore esterno, il motivo della crisi che ci attende, si continua a negare l’evidenza di un modello finanziario ed economico che funziona solo con eccesso di leva, compressione dei redditi, ampio debito speculativo e pochi investimenti nell’economia reale, un modello che non è sostenibile.
E’ del tutto illusorio continuare a sostenere che la forza di un economia dipende solo da quanto debito è in grado di fare, senza tenere conto della qualità di questo debito e, soprattutto, di come venga utilizzato e se produca a termine un miglioramento dei redditi reali. Se il debito cresce decisamente piu’ del reddito che lo deve sostenere, è ovvio che questo modello condanna a crisi inevitabili sempre piu’ sistemiche i cui postumi compromettono la tenuta del sistema finanziario e poi di quello capitalistico.
Negli ultimi dieci anni tutti hanno fatto tantissimo debito solo per sostenere consumi che i redditi reali non consentivano di fare, in particolare in USA, Canada, UK e Australia, e per fare finanza speculativa.
Per gli economisti della consensus view è del tutto logico accettare che il 30% dei consumi negli Stati Uniti possano dipendere solo dalla crescita del debito e non dalla crescita dei redditi e che la finanza possa fare leva sull’economia senza limiti e senza controlli, grazie a regulators che si compiacciono nel vedere i mercati salire senza fine e la propensione al rischio esplodere in continue bolle speculative.
Ma come sottolineato piu’ volte, il problema non è se un sistema economico e finanziario possono avere una crisi, ma se la crisi il sistema è in grado di reggerla e di superarne il danno in tempi accettabili. Reggere una crisi significa non rischiare di implodere tutte le volte che se ne affronta una (come accade ormai dal 2002).
Se poi i tempi di recupero non sono accettabili per chi ha subito il danno (imprese e lavoratori) il sistema non regge sia da un punto di vista economico che sociale e si apre una fase di instabilità di lungo periodo.
I mercati finanziari ripongono grande fiducia nelle Banche Centrali per risolvere le crisi con operazioni basate su iniezioni di liquidità (Quantitative Easing) e per questo motivo si spingono ad eccessi speculativi destabilizzanti, nella convinzione che il rischio di sistema non esiste e la liquidità è la soluzione di tutto.
Ma le cose non sono cosi’ semplici come si vuole far credere. Questo modo di pensare e di operare, con il supporto complice dei regulators, fa confondere la differenza che esiste tra liquidità e solvibilità. La liquidità puo’ essere infinita ma non è detto che chi ne dispone la indirizzi verso coloro che ne hanno bisogno, se costoro non sono in grado di restituirla perché non solvibili. Chi di voi presterebbe soldi a chi è a rischio di fallire ?La solvibilità di un sistema dipende esclusivamente dalla propensione al rischio di chi fornisce credito (Banche, Fondi d’Investimento e investitori) e molta della liquidità che circola nel sistema dipende dunque solo dalla propensione al rischio di banche ed investitori e potrebbe dunque non trasformarsi in credito per chi ne ha bisogno. Non è un caso che tutte le volte che la massa monetaria M2 esplode in concomitanza con le crisi, il credito all’economia si contrae.
La crisi che stiamo subendo avrà un pesante impatto sulla propensione al rischio e quindi sulla circolazione della liquidità immessa nel sistema. Se tutta la liquidità immessa con il QE non si trasforma in credito in tempi brevi, il sistema subirà un credit crunch anche in una fase di espansione dei bilanci delle Banche Centrali.
La crisi non finisce dunque con la fine del lockdown ma inizia quando cominciano a manifestarsi gli eventi di credito (i fallimenti) e quindi comincia adesso. Gli eventi di credito infatti incidono sulla propensione al rischio di chi dovrebbe dare credito al sistema. In media le recessioni negli Stati Uniti durano circa 13 mesi, ma nel 2008 sono stati 18, e potrebbero essere 13/18 mesi lunghissimi per il potenziale squilibrio tra liquidità e solvibilità.
L’economia americana evidenziava a fine 2019 una dimensione di credito speculativo ad alto rischio di insolvenza di 5200 miliardi di dollari (il 25% del PIL) già solo in caso di normale recessione.
I recenti downgrading subiti da molte società hanno fatto recentemente salire tale importo a oltre 6 trilioni di dollari (+20% in un solo mese e ora il 30% del PIL). Nel 2008, che tutti ricordano come una crisi poco divertente, tale percentuale era al 12%.
Le Teorie Monetariste, molto in voga nelle Banche Centrali ma poco aggiornate per navigare in una economia dove comandano debito e finanza (Debt Driven Economy), non distinguono tra liquidità e solvibilità, perché danno per scontato che chi ha liquidità non ha una propensione al rischio ed è pronto a prestare soldi al sistema in qualsiasi condizione esso sia. Credo proprio che ora ci attendano tempi che metteranno in evidenza questa differenza, anche se sono abbastanza certo che, sempre gli economisti della consensus view continueranno a rimanere ancorati alle loro teorie.
In questi ultimi due mesi, solo negli Stati Uniti, sono fallite 1600 aziende al giorno (!) nonostante la liquidità immessa nel sistema sia al record di sempre (Fonte: USA Census Bureau/ Deutsche Bank Ec. Research). Il credito al consumo per il consumatore americano si è contratto pesantemente, cioè le Banche sono passate dall’erogare 15/20 miliardi di dollari al mese a togliere 12 miliardi dal settore del credito al consumo (i consumi rappresentano il 75% del Pil Usa a fine 2019). Nessuno vuole fare piu’ credito ai disoccupati che aumentano in modo esplosivo dato che le banche, che hanno ricevuto la liquidità dalla FED, hanno iniziato a pensare che chi rimane senza lavoro non puo’ pagare le rate e quindi non è piu’ solvibile come prima (ecco un primo esempio della differenza tra liquidità e solvibilità).
A Wall Street potrebbero obiettare che i sussidi alla disoccupazione erogati a pioggia risolveranno il problema, ma credo che chi vive di sussidi non abbia come priorità il rimborso del debito e quindi i default sono destinati a salire inesorabilmente.
A questo punto, data la forte correlazione esistente tra il credito al consumo e i consumi, e tra i consumi e i profitti delle società quotate, è probabile che possa verificarsi una corporate crisi di solvibilità delle aziende indotta da una crisi di liquidità dei credito al consumo., come ben evidenziato da Rana Foroohar sul Financial Times del 10 maggio (Gambling on US equities is becoming more difficult).
Non mi ricordo di aver mai assistito a un aumento del credito in una fase di aumento dei fallimenti, sebbene nelle fasi di crisi la liquidità immessa nel sistema dalla banca centrale aumenti, ma ovviamente non si trasformi in credito ( punto critico delle Teorie Monetariste che utilizziamo per gestire la nostra economia).
Occorre quindi distinguere tra liquidità, credito e solvibilità perché non sono la stessa cosa come invece Wall Street vuole far credere ad una massa di investitori accecati dalla semplicità (solo apparente) di come funziona l’economia monetaria.
Un altro plateale esempio della differenza tra liquidità e solvibilità è il fallimento Lehman Brothers, avvenuto nel settembre 2008, con il QE della FED in piena operatività e con la crisi finanziaria in corso già da nove mesi. Con tutta la liquidità che circolava nel sistema, Lehman non avrebbe dovuto fallire…….ma anche in questo caso la liquidità non si era trasformata in credito per alcuni e molti intermediari, tra cui Lehman, sono falliti in pieno QE.
Il recente fallimento della Hertz (autonoleggio) è avvenuto in concomitanza con l’acquisto da parte della FED di corporates Bonds che rientravano nel piano Secondary Market Corporate Credit Facilities e ora la FED è creditore nel fallimento Hertz che, appunto grazie a tale piano, non avrebbe dovuto fallire.
Ma allora a cosa servono questi interventi se poi i default avvengono comunque? Servono a mantenere i soldi degli investitori nel sistema, facendo credere che la liquidità e la solvibilità siano la stessa cosa. Questo meccanismo psicologico induce a non vendere e in questo modo sono gli stessi investitori che, mantenendo la loro liquidità investita, sostengono un sistema che diversamente andrebbe in default in un colpo solo.
In pratica la strategia consiste nel cercare di mantenere il piu’ possibile tutti investiti, perché la vostra liquidità è molto maggiore di quella della FED e in realtà non è la liquidità della FED che sostiene il sistema ma la vostra.
Gli interventi della FED dal 2008 ad oggi si misurano in 7 mila miliardi di dollari ma lo stock di attività finanziarie in circolazione solo sul mercato Usa è pari a circa 120 mila miliardi (5,5 volte il PIL
È del tutto evidente che la massa d’urto delle Banche Centrali è minima rispetto alla dimensione del mercato e quindi la liquidità vera che circola nel sistema è prevalentemente fornita sempre dal mercato e quindi da investitori, banche e fondi d’investimento e dalla loro propensione al rischio.
Le politiche delle Banche Centrali dal 2008 in poi hanno trasformato i portfolio managers in meri cacciatori di rendimento, inducendoli a trasformare l’attività di investimento in una mera selezione di attività finanziarie che producessero alti rendimenti senza rischio apparente, nella convinzione che le Banche Centrali avrebbero prevenuto qualsiasi crisi.
Questo meccanismo ha spostato nettamente al rialzo la propensione al rischio del sistema e ha fatto esplodere il credito speculativo, consentendo l’emissione di circa 19 mila miliardi di dollari di obbligazioni da parte di emittenti che, con i loro ricavi, non riuscivano neppure a pagare gli interessi passivi sul debito emesso neanche in una fase di espansione dell’economia.
Se ora molte di queste emissioni faranno default, non si potrà certo attribuire la colpa a un virus, ma piuttosto a un sistema totalmente fuori controllo. A questo punto la Banca Centrale Usa si è trasformata da prestatore di ultima istanza a compratore di ultima istanza, per indurre appunto il sistema a non vendere e rimanere investito: ma ciò non impedisce comunque i fallimenti.
In un sistema dove tutti hanno comprato, nessuno poteva infatti vendere e la FED si è vista costretta ad entrare in un mercato finanziario che funziona solo quando sale mentre quando scende salta per aria.
Cosi’ ecco le Banche Centrali acquistare Corporate Bonds, High Yields e via dicendo, per salvare un sistema che esse stesse hanno costruito sulla base di politiche monetarie che non conoscono ormai un limite. Ma la parte piu’ rilevante degli interventi, come sempre, è fatta per Wall Street e non per Main Street, che con questa crisi evidenzia già ora 36 milioni di disoccupati che avranno aiuti certamente meno importanti di quelli erogati ad un sistema finanziario sciagurato.
Sebbene gli operatori dei mercati finanziari siano contenti e felici di essere salvati e il sistema stesso, nel breve periodo, sembri beneficiarne, si trascura l’impatto di lungo termine di questo modo gestire l’economia e la finanza.
Sapete perché c’è in circolazione una massa di credito a rischio di default come mai prima nella storia? Perché il collocamento di Leverage Loans, MBS, ABS, CMBS, CLO e High Yield di tutti i tipi produce enormi profitti per Wall Street che accumula commissioni fino al 4%-5% (società di rating incluse) per organizzare, cartolarizzare, collocare e poi gestire questi strumenti che vengono distribuiti ad investitori alla ricerca di rendimenti.
Il rendimento per l’investitore finale è nettamente ridimensionato dalle ricche commissioni degli intermediari che diffondono poi il rischio nel sistema attraverso una intensa attività di distribuzione e commercializzazione del rischio, senza alcuna vigilanza reale su dove questi rischi vanno a finire. La socializzazione del capitale di rischio, ovvero soldi facili per fare finanza speculativa ma non per fare investimenti, e la compressione della sua remunerazione, che ne è una conseguenza, hanno compromesso la redditività di un capitale che chiede sempre di essere salvato dai rischi che si prende, mentre gli imprenditori dell’economia reale molto spesso non godono dello stesso privilegio.
Se poi si viene costretti a operare su mercati che funzionano solo sul buy side (quando salgono) e non funzionano piu’ sul sell side (quando scendono), vuol dire che ci stiamo addentrando sul terreno del sequestro velato del capitale.
In sostanza, puoi solo comprare ma non potrai mai vendere, perché quando vorrai vendere, lo potrai fare solo con perdite inaccettabili. Ecco quindi che, i capitali investiti che attualmente sono in perdita, rimangono congelati in attesa di tempi migliori, con ovvie conseguenze per la remunerazione nel lungo termine del capitale investito.
Oggi il trading on line da parte di investitori al dettaglio è il piu’ importante competitor della PlayStation. Infatti, i brokers americani non fanno piu’ pagare neppure le commissioni di intermediazione perché i profitti maggiori vengono fatti finanziando i clienti per fare leva 2 o 3 o 5 volte sul capitale investito (se ti indebiti giochi gratis). Un recente sondaggio fatto negli Stati Uniti evidenzia che i recenti sussidi erogati ai privati cittadini dal governo USA sono stati utilizzati, dai percettori compresi tra le fasce di reddito di 35 mila-100 mila dollari, per i seguenti scopi: 1) accumulare risparmio, 2) utilizzo per spese correnti, 3) trading on line (Fonte: Yodlee Data Analytics).
Se qualcuno vuole cercare dei paragoni con il 1929, ha ampio materiale a disposizione.
Il risultato fallimentare di questo modello economico e finanziario è evidente e i recenti interventi delle Banche Centrali stanno dimostrando che la socializzazione della finanza come strumento per produrre ricchezza non funziona.
La finanza populista di Donald Trump, che utilizza l’andamento dell’indice di borsa per scopi elettorali, non ha prodotto benessere per gli Stati Uniti e solo politiche economiche che rimetteranno al primo posto il reddito da lavoro produrranno la svolta.
L’aumento dei redditi è indispensabile per sostenere un debito non piu’ sostenibile con l’emissione di altro debito, una sorta di schema Ponzi come nel 2008, quando il sistema è ripartito con lo stesso modello fallimentare che ne aveva procurato il collasso, per poi produrne un altro.
La crisi indotta dal Coronavirus apre una epocale fase di trasformazione dell’economia che produrrà alta instabilità fino a quando non si troverà un modello migliore per gestire la crescita.
A questo punto si dovrebbe prendere semplicemente atto che l’esasperazione del modello basato sui profitti generati da un eccesso di leva finanziaria e da una finanza fuori controllo ha fallito e ha prodotto il risultato opposto: la nazionalizzazione del sistema causata da eccessi di speculazione finanziaria, esattamente quello che è accaduto dopo la crisi del 1929.
Credo che una grande fonte di ispirazione per gestire questa crisi si potrebbe trovare nella rivisitazione delle politiche del New Deal, dando ormai per scontato che la presenza dello stato nell’economia è inevitabilmente destinata a crescere, la tassazione salirà ovunque e la globalizzazione è ormai sotto attacco da tempo.
Anche le tendenze geopolitiche sembrano accentuare questi fenomeni perché la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti è in realtà uno scontro geopolitico destinato a proseguire e ad accentuarsi, creando ulteriori problemi all’economia mondiale.
L’ultimo baluardo di difesa di questo modello economico fallimentare rimane la forza del dollaro, proprio quando invece il mondo avrebbe bisogno di un dollaro debole, perché è la principale divisa di finanziamento a livello globale. Se il dollaro scende, il costo del debito per chi si è indebitato in dollari scende. Ma mentre prima della crisi Trump invocava un dollaro debole, ora si accorge che la forza della moneta garantisce un flusso di capitali vitale per il colossale debito americano (pubblico e privato), finanziato in modo pronunciato dal risparmio estero.
Europa, Giappone e Cina riversano fiumi di denaro sugli asset americani per sostenere un modello finanziario ormai in crisi. Proprio la forza del dollaro nasconde la fragilità del sistema: senza i capitali esteri l’America sarebbe praticamente in default, avendo un debito estero pari al 45% del PIL.
Per ridurre questa dipendenza dai capitali esteri, gli americani dovrebbero aumentare il risparmio interno e ridurre il debito, accettando un lungo periodo di aggiustamento degli squilibri cumulati in questi ultimi dieci anni e una bassa crescita economica. Poiché questa scelta è, al momento, inaccettabile, ecco la FED intervenire per puntellare il sistema e sperare che tutto torni come prima.
Purtroppo, i tempi per riparare il sistema non ci sono e già oggi i futures sui FED Funds a scadenza dicembre 2020 e Marzo 2021 prezzano tassi negativi sulla divisa di riserva mondiale, nonostante la FED continui ad affermare che per il dollaro i tassi negativi non possono esistere.
Probabilmente una parte del mercato è riuscita a sfuggire alla sovietizzazione e preannuncia l’arrivo del cedimento dell’ultimo tassello che produrrà una totale ristrutturazione del sistema economico e finanziario mondiale.
La cosiddetta fase 2, il dopo lockdown, per l’economia internazionale non è neppure cominciata e la parte piu’ facile per gestire la crisi (ovvero stampare moneta) è già finita. Mentre i mercati finanziari hanno già scontato una rapida e facile ripresa, emerge in modo sempre piu’ evidente che la ripresa sarà lenta e deludente. Sperare che questa volta tutto sarà risolto stampando moneta è pura arroganza finanziaria. Difendere a oltranza un modello di crescita che non produce piu’ ricchezza (se non per pochi) ma solo debiti (per molti) sarà probabilmente l’errore fatale.
Buy back: cos’è e qual è il significato del termine?
Senza giri di parole il significato di buy back è letteralmente quello di riacquisto di azioni proprie posto in essere da parte di una società quotata.
Esso può avere diverse conseguenze, ma lo scopo primario è in genere quello di garantire una remunerazione agli azionisti. Tramite il buy back la società in questione riacquista parte delle proprie azioni sul mercato e di conseguenza le cancella non potendo essere azionista di se stessa.
Il significato di buy back è dunque quello di riduzione delle azioni presenti sul mercato e conseguente aumento del valore di quelle rimanenti. Di seguito una guida completa sull’argomento, dal cos’è il buy back, al significato del termine, fino alle modalità con cui può prendere vita.
Come già accennato, la definizione letterale di buy back è quella di riacquisto di azioni proprie. Per capire al meglio il significato del termine è necessaria però qualche precisazione aggiuntiva.
Il buy back permette alla società di investire su sé stessa. Riducendo il numero di azioni sul mercato, l’operazione di riacquisto permette di aumentare il valore delle stesse dato che ogni investitore di quella società avrà una porzione più grande della stessa essendo diminuito il numero complessivo di titoli (ossia di pezzetti in cui la società è divisa). In altre parole il buy back può prendere vita in diversi casi e cioè può avere diversi obiettivi. In primis l’operazione può rispondere alle esigenze di una società che consideri le proprie azioni sottovalutate; in secundis può mettere in luce le previsioni rialziste dell’azienda delle sue attuali operazioni. Poi ancora può rispondere all’esigenza di garantire un ritorno nelle mani degli azionisti.
Come realizzare un buy back? Le modalità
L’operazione di riacquisto di azioni proprie può essere realizzata in due modi. Possiamo infatti parlare o di offerta diretta, detta anche tender offer, oppure possiamo fare riferimento ad un acquisto sul mercato.
Offerta diretta: in questo caso con il buy back la società offre agli azionisti di riacquistare un tot di azioni a una forchetta di prezzo che viene stabilita all’interno di un determinato arco temporale. È la pratica più diffusa.
Acquisto sul mercato: in questo caso il riacquisto di azioni proprie da parte della società avviene con le modalità utilizzate da un qualsiasi investitore, ossia ad un prezzo stabilito dalle dinamiche di mercato (incontro domanda/offerta). Questa seconda modalità di buy back è in genere poco utilizzata dalle aziende poiché non appena viene diffusa la notizia il prezzo delle azioni schizza.
Il buy back, o riacquisto di azioni proprie, segue insomma uno schema ben preciso che si articola per gradi:
la società riacquista alcune sue azioni;
tali azioni vengono riassorbite e cancellate, poiché la società non può essere investitore di sé stessa;
la cancellazione riduce il numero di azioni sul mercato;
meno azioni ci sono, più aumenta il loro valore;
essendo aumentato il loro valore, ogni azionista ha una fetta più grande della società e dunque un maggior profitto.
Motivazioni del buy back
Una società quotata sul mercato decide di condurre un’operazione di buy back sulla base di diverse motivazioni, alcune delle quali sono state già accennate in precedenza:
Eccesso di liquidità: l’azienda ritiene che la sua liquidità in eccesso possa essere più redditizia se investita nelle sue stesse azioni, piuttosto che adoperata in impieghi bancari o reinvestita. La società in questo caso si comporta come un risparmiatore esterno che decide di portare avanti un investimento nel suo stesso titolo.
Valore per gli azionisti: poiché un’operazione di buy back:
aumenta la quotazione dei titoli, in quanto ne sostiene la domanda sul mercato;
aumenta il valore patrimoniale dei titoli rimasti, qualora i titoli soggetti a buy back vengano distrutti.
Mantenimento della maggioranza, assoluta o relativa delle quote azionarie, e quindi del controllo e della proprietà aziendale, in quanto le azioni riacquistate dall’emittente escono dal listino-mercato azionario, e non possono essere oggetto di offerta pubblica di acquisto.
Ottenere una plusvalenza: acquistando le azioni ai minimi storici per rivenderle sul mercato, non appena le quotazioni ritornano ai livelli precrisi.
Scopi del buy back
Come sarà già emerso nelle precedenti righe, le operazioni di buy back sono utilizzate per attuare:
Piani di stock option: l’attribuzione di azioni ai dipendenti e/o agli amministratori della società, implica che l’azienda debba dotarsi di pacchetti azionari.
Distribuzione di azioni o altre opzioni su azioni a titolo gratuito o oneroso, ai dipendenti e amministratori dell’emittente o di società controllate.
Scambi di azioni con altre società di capitali, nell’ambito di operazioni di natura strategica di interesse per gli emittenti.
Valutazione azionaria: il buy back può anche dare un importante segnale al mercato di come gli amministratori ritengano che il titolo sia sottovalutato. Se tale segnale viene recepito, gli agenti potrebbero investire in detto titolo e portare le quotazioni a salire.
A seguito della crisi del 2008, le operazioni di buy back si sono diffuse anche per altri strumenti finanziari come le obbligazioni, ed anche a soggetti di diritto pubblico, con il riacquisto di titoli di debito sovrano da parte delle Banche Centrali.
In questi casi, l’operazione è finalizzata a:
evitare che all’asta con gli investitori istituzionali restino invendute delle obbligazioni;
collocare i titoli con interessi più bassi: aumentando la domanda scende il costo complessivo del debito pubblico e si mantiene ripagabile anche nel lungo termine.
Effetti del buy back
Le operazioni di buy back risultano piuttosto convenienti se si guarda alle loro conseguenze sugli indici della società. Il riacquisto di azioni proprie, e dunque una loro riduzione sul mercato, aumenta la fetta societaria e il profitto di ciascun azionista. In altre parole aumenta l’EPS. A migliorare sono così anche il ROE e il ROI: in questo ultimo caso viene ridotto il numero di asset e dunque il denominatore del rapporto necessario al calcolo.
Esempio di buy back
Nonostante abbia avuto un anno fiscale piuttosto buono, la società Xconsidera i propri titoli sottovalutati rispetto a quelli dei principali competitor. Per remunerare i propri azionisti nel lungo periodo e alzare il valore delle azioni, decidere di procedere con un’operazione di buy back volta al riacquisto del 10% di azioni proprie.
I titoli X sono in totale 1 milione e gli utili totali sono pari a 1 milione di euro. Di conseguenza l’EPS (utile per azione) è di 1 euro. Il rapporto P/E è di 20, per cui le azioni scambiano a 20 euro ciascuna.
EPS = 1.000.000 utili/1.000.000 azioni = 1 euro
Come accennato, la società vuole procedere al buy back del 10% delle sue azioni, che nel nostro esempio corrisponde a 100.000 titoli (su 1.000.000). Il nuovo EPS sarà aumentato da 1 euro a 1,11 euro, dato che non dovrà più essere calcolato su un milione di azioni ma su 900.000.
Nuovo EPS = 1.000.000 utili/900.000 azioni = 1,11 euro
Con un P/E ratio di 20, il valore delle azioni non sarà più di 20 euro ciascuna, ma di 22,22 dopo il buy back, ossia dopo il riacquisto.
La guida completa e le differenze con EPS ed earnings yeld.P/E: qual è la definizione delrapporto prezzo/utilima soprattutto quali le modalità di calcolo e di utilizzo della relazione?
Con P/E ratio si intende letteralmente il calcolo del rapporto tra il prezzo corrente di un’azione e l’utile a questa associato.
Esso rappresenta una delle misure di maggior utilizzo da parte degli investitori e degli analisti. Il fatto che il P/E sia un rapporto rende la relazione prezzo/utili particolarmente adatta per scopi di valutazione, ma è difficile da utilizzare quando si procede al calcolo dei rendimenti potenziali soprattutto in un paniere di investimenti differenti.
In poche parole la definizione base di P/E parla del prezzo delle azioni diviso per l’EPS, letteralmente utile per azione. Bisogna ora capire come si calcola questo rapporto e qual è il suo utilizzo. A cosa serve?
Ora che abbiamo ben chiara la definizione di P/E occorre fare alcune precisazioni prima di procedere nella nostra analisi del rapporto prezzo/utili. Vediamo allora tutto quello che c’è da sapere sul P/E, qual è l’utilizzo e quali sono le modalità di calcolo del rapporto prezzo/utili.
Come si calcola il P/E? Il rapporto prezzo/utili si calcola ponendo al numeratore il prezzo di una singola azione societaria e al denominatore l’EPS (earning per share), ossia l’utile per azione. Prima di trovare il rapporto P/E bisognerà scovare il nostro EPS che ha una modalità di calcolo piuttosto semplice:
EPS = utile netto societario/numero di azioni emesse
Una volta calcolato il nostro EPS possiamo passare al rapporto prezzo/utili:
P/E ratio = prezzo di ciascuna azione/EPS
Facciamo un esempio pratico. Voglio scoprire il rapporto prezzo/utili della società X che ha emesso 10.000 azioni, che ha un utile netto di 5.000 euro e che ha un prezzo per azione di 5 euro. Innanzitutto mi calcolo il mio EPS che, secondo le formule appena descritte, è pari a: 5.000/10.000=0,5 euro. Dopo aver trovato il mio utile per azione posso procedere al calcolo del rapporto prezzo/utili che sarà: 5/0,5=10. Il mio P/E è 10.
Ora che sappiamo qual è la definizione e quali sono le modalità di calcolo del P/E bisognerà capire a cosa serve il rapporto prezzo/utili.
P/E, rapporto prezzo/utile: a cosa serve? L’utilizzo
Un altro modo di guardare la definizione di P/E è il seguente: quante volte il prezzo dell’azione esaminata incorpora l’utile societario. Di conseguenza, più il rapporto P/E sarà alto più ciò significherà che gli investitori sono disposti a pagare di più per avere il livello di utili del denominatore. In altre parole il P/E è anche una misura della fiducia del mercato nei confronti delle capacità societarie di incrementare gli stessi utili.
In parole ancor più semplici potremmo invece definirlo come un rapporto che ci permette di sapere quanto pagare per ottenere un utile di quella società. L’utilizzo del rapporto prezzo/utili è piuttosto frequente in quanto consente di evidenziare quanto un titolo è sopravvalutato o sottovalutato rispetto ai conti di bilancio della società in esame.
Dal punto di vista teorico il P/E serve a calcolare quanti anni dovrò aspettare per recuperare il mio intero investimento a utili costanti. Torniamo all’esempio precedente: se una società ha un utile per azione di 0,5 euro e ha anche un prezzo di 5 euro per azione allora il mio rapporto prezzo/utili sarà pari a 5/0,5 = 10.
Ciò significa che io, investitore, dovrò aspettare 10 anni per recuperare l’intero investimento a utili costanti. Ecco insomma cos’è il P/E, qual è la sua definizione, le modalità di calcolo e l’utilizzo del rapporto prezzo/utili.
P/E, rapporto prezzo/utili: quanti tipi ne esistono?
A seconda del tipo di utili presi in considerazione nel calcolo del rapporto abbiamo la facoltà di individuare due tipi “diversi” di P/E:
Trailing P/E: se al denominatore consideriamo gli utili realmente conseguiti e dunque espressi nell’ultimo bilancio societario di esercizio.
Forward P/E: come si evince dalla terminologia utilizzata, in questo caso il rapporto prende in considerazione non gli utili conseguiti, ma quelli stimati per l’anno successivo di esercizio.
P/E, rapporto prezzo/utili: un confronto
Il P/E, oltre che per un titolo specifico, è ancor più utile se paragonato ad altri parametri e da questo punto di vista ne distinguiamo 3.
P/E di settore: in questo caso paragoniamo il rapporto prezzo/utili di un titolo a quello delle altre compagnie della stessa taglia e dello stesso settore; il paragone viene effettuato anche con il P/E medio dello stesso comparto preso in considerazione e in questo modo abbiamo la facoltà di capire se quel titolo è sopravvalutato o sottovalutato.
P/E relativo: in questo caso cerchiamo di capire qual è la percezione degli investitori paragonando il P/E del titolo con il suo rapporto prezzo/utili in un determinato periodo di tempo. PEG Ratio: paragona il P/E alla crescita (futura o passata) degli utili. Un titolo con un P/E di 10 e con una crescita del 10% ha un PEG pari a 1, mentre un titolo con un P/E di 10 e una crescita del 20% ha un PEG di 0,5. In quest’ottica la seconda azienda è sottovalutata rispetto alla prima.
P/E ratio, rapporto prezzo/utili: differenze con earning yields (U/P)
L’earning yelds, in italiano rapporto U/P, ha una definizione speculare a quella del rapporto prezzo/utili, ossia P/E. In altre parole è il suo reciproco essendo esso pari a:
P/U = utile per azione (EPS)/prezzo di ciascuna azione = 1/(P/E) espresso in %
Facciamo ancora una volta un esempio pratico per capire quali sono la definizione, l’utilizzo e la modalità di calcolo di questi indicatori.
Il titolo X ha le seguenti caratteristiche:
Prezzo: 10 euro;
EPS: 0,50 euro
P/E: 20
U/P: 5%
Il titolo Y ha invece le seguenti caratteristiche:
Prezzo: 20
EPS: 2 euro
P/E: 10
U/P: 10%
Alla luce di questi dati, e ammettendo che le due società siano simili ed operino nello stesso settore, quale delle due ha un valore maggiore? La risposta più ovvia è la Y, dato che dal punto di vista valutativo ha un P/E più basso, mentre ha un U/P più alto, esattamente del 10% il che significa che per ogni euro investito nelle azioni sarà generato un EPS di 10 centesimi. Nel caso dell’azienda X, invece, per ogni euro investito avremmo un EPS di 5 centesimi.
Rispetto al P/E, il rapporto U/P, ossia l’earning yeld permette di valutare la convenienza tra un’azione e un’obbligazione ad alto rendimento.
P/E ratio, rapporto prezzo/utili: differenze con EPS
Come abbiamo già avuto modo di vedere nella sezione dedicata al calcolo del P/E, il rapporto prezzo/utili si discosta anche dall’EPS, anche se le due misure sono strettamente correlate (essendo l’utile per azione fondamentale al calcolo del P/E).
L’EPS, o utile per azione, è la misura base per capire la redditività di una società. L’utile per azione si calcola dividendo l’utile netto aziendale per il numero di azioni ordinarie emesse dalla società sul mercato. Esattamente come il rapporto prezzo/utili, anche l’EPS può essere di due tipi:
Basic: si calcola dividendo l’utile netto disponibile agli azionisti ordinari per la media ponderata delle azioni ordinarie emesse durante l’anno;
Diluted: le azioni ordinarie rappresentano una stima sulla base dell’effetto di esercizio e della possibile conversione dei titoli.
Ecco, insomma, cos’è il P/E, quale la sua definizione, il suo utilizzo, le sue modalità di calcolo e quali sono le differenze del rapporto prezzo/utili con EPS ed earning yelds.